Rassegna stampa

Un Monte di problemi

 
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero 34/27 agosto di Left.
 
Per la più antica banca del mondo, il Monte dei Paschi di Siena, si prospetta ormai la strada obbligata dell’acquisizione da parte di Unicredit. Una fusione che richiede un intervento pubblico, per il momento, di circa 8 miliardi di euro. E che comporta la perdita di migliaia di posti di lavoro
 
di Cesare Damiano
 
Le vicende bancarie che in queste ore stanno attirando l’attenzione degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica in generale, prevedono scelte dense di implicazioni finanziarie e occupazionali. È importante, dunque, chiarire quanto sta accadendo e l’entità della posta in gioco. Lo scorso mercoledì 4 agosto il Ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha illustrato alle commissioni finanze di Camera e Senato lo stato dell’arte relativo alla situazione della banca più antica del mondo, il Monte dei Paschi di Siena, che da diversi anni si dibatte in condizioni critiche. In questi giorni i media sono prodighi di notizie sulle vicende che, nel corso degli ultimi 15 anni, avrebbero contribuito a determinare la crisi di questo istituto bancario.
Per fornire alcuni elementi utili al ragionamento, vorremmo concentrarci sull’attualità e sui possibili scenari derivanti dalla manifestazione di interesse di Unicredit e sulle sue relative ricadute, con un occhio di riguardo al destino del personale coinvolto in questa ristrutturazione.
Il Ministro dell’Economia ha affermato che non vi sono le condizioni per ipotizzare una proroga dei termini di uscita del Ministero dell’Economia dal capitale di Monte dei Paschi e che è assolutamente necessario rispettare gli impegni assunti con la Commissione europea.
Questo, in combinato disposto con l’esito negativo per MPS degli stress test in caso di scenario avverso, rende di fatto impraticabile l’ipotesi cosiddetta “stand alone”, cioè che la banca senese resti indipendente e non sia oggetto di fusione o acquisizione. Inoltre ci sarebbe, ha aggiunto il ministro Franco, la necessità di un rafforzamento patrimoniale strutturale con un aumento di capitale ben superiore a quello di 2,5 miliardi di euro già previsto nel piano industriale.
Quindi, l’uscita del MEF dal capitale della banca e l’aumento di capitale molto consistente che sarebbe necessario rende impraticabile la strada della sopravvivenza in autonomia dell’Istituto. Per completezza di informazione aggiungiamo che il ministro ha anche evidenziato che i 2500 esuberi già stimati aumenterebbero significativamente nel caso in cui la Commissione europea ponesse un obiettivo più ambizioso di riduzione dei costi e che la banca sarebbe esposta a rischi e incertezze enormi e difficilmente sopportabili.
Esclusa la pista “stand alone”, dunque, resta in piedi l’ipotesi di nozze con Unicredit, da tempo il vero obiettivo di buona parte della politica nazionale: il pretendente sposo, infatti, è da tempo corteggiato dal Governo affinché si decida a chiedere la mano di MPS. E non è irrilevante che, negli ultimi mesi, ci siano stati due importanti avvicendamenti ai vertici di Unicredit: oltre all’arrivo alla presidenza dell’ex ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, artefice del salvataggio di MPS, Andrea Orcel ha assunto il ruolo di CEO andando a sostituire il suo predecessore Jean Pierre Mustier. Anche questi avvicendamenti sono stati spesso intesi come un progressivo orientamento verso l’ipotesi di acquisizione che, in precedenza, era vista molto freddamente.
Cosa ha detto il ministro Franco sui contatti in corso tra MEF e Unicredit? Ha stigmatizzato il rischio di smembramento della banca senese e ha rassicurato sui temi della salvaguardia dell’occupazione, del marchio e del legame col territorio.
Ma come stanno effettivamente le cose? Unicredit, come noto, non intende accollarsi MPS nella sua interezza. Dal suo interessamento sono state escluse alcune attività: gli NPL, o crediti deteriorati, che ammontano a circa 4 miliardi di euro al lordo delle rettifiche; il contenzioso giudiziale e stragiudiziale; i contenziosi e i rischi legati alle cessioni effettuate a terzi dei crediti deteriorati.
Altre poste importanti della partita sono il “tesoretto” di DTA (imposte attive differite trasformabili, in caso di fusione, in crediti di imposta) che è quantificabile in circa 2,2 miliardi di euro; un possibile aumento di capitale da realizzarsi in vista dell’operazione che potrebbe essere pari a circa 1,5 miliardi di euro; infine, l’ipotesi del MEF come azionista non decisivo di Unicredit.
Quindi, ricapitolando: un 4 miliardi di euro di crediti deteriorati (NPL) che, evidentemente, dovrebbero in qualche modo essere assorbiti direttamente o indirettamente dalle finanze pubbliche, cui si sommerebbe un aumento di capitale pre-fusione di 1,5 miliardi di euro in buona parte a carico dello Stato e un vantaggio fiscale per Unicredit, una volta acquisito MPS, di 2,2 miliardi di euro.
Una cifra considerevole di cui, in modi diversi, la collettività dovrebbe farsi carico affinché Unicredit salvi MPS. E, al di là di populismi di vario genere, è evidente a tutti che i costi che il fallimento di una banca, tra l’altro delle dimensioni di MPS, genererebbe sulla collettività, direttamente e indirettamente, come effetto domino sul sistema del credito del nostro Paese, sarebbero sicuramente maggiori.
È anche per questo che il ministro ha affermato che la fusione è una soluzione strategicamente più valida dal punto di vista dell’interesse generale del Paese, rispetto ai costi che da essa deriverebbero in assenza di una soluzione.
D’altronde, aggiungiamo, nel 2017 l’operazione di salvataggio delle due banche venete (Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca), mediante l’intervento di Intesa Sanpaolo, a conti fatti, è costato circa 7 miliardi di euro alla collettività.
Superato lo scoglio dell’intervento pubblico che, in un modo o nell’altro, è inevitabile, bisogna puntare a far sì che questo sia risolutivo (si stima, infatti, che dal 2010 in MPS siano stati investiti 20 miliardi di euro in aumenti di capitale e siamo ancora a cercare una via d’uscita) e che gli impatti che inevitabilmente ci saranno sui lavoratori e sui territori siano sostenibili.
Parrebbe, infatti, che Unicredit, oltre a selezionare le attività di MPS che intenderebbe acquisire, potrebbe rilevare circa 1250 filiali, lasciandone fuori tra le 100 e le 150. Il destino di queste filiali, radicate in alcune regioni del meridione, potrebbe essere quello di un ulteriore intervento pubblico indiretto attraverso MCC (Mediocredito Centrale), di proprietà di Invitalia (l’Agenzia nazionale per lo sviluppo, di proprietà del Ministero dell’Economia), che ha come mission la creazione di un polo bancario meridionale, tanto da aver acquisito nella propria denominazione anche quella di Banca del Mezzogiorno. È bene ricordare che già attraverso il salvataggio del Gruppo Banca Popolare di Bari – la cui messa in sicurezza è ancora in corso – si sta perseguendo questo obiettivo che risulterebbe strategico per l’economia di quella parte di Paese che ha maggiormente bisogno di investimenti e di interventi a sostegno delle attività locali.
Resta, infine, da capire cosa succederà alla Direzione Generale di MPS a Siena e ai suoi lavoratori e, più in generale, a quelli che saranno gli esuberi che, con la fusione tra Unicredit e MPS, si genererebbero: si parla di grandezze che vanno dai 5000 ai 6000 posti di lavoro che verrebbero inesorabilmente tagliati. Fanno bene i sindacati del settore a invocare, come da tradizione nel comparto, il ricorso agli strumenti che da oltre venti anni sono stati creati proprio per gestire in maniera indolore questi processi: vale a dire il Fondo di solidarietà, impropriamente considerabile come una sorta di ammortizzatore sociale di natura privatistica che consente un prepensionamento fino a 5 anni di anticipo sulla pensione. Fondo finanziato dalle banche stesse e, per le sue attività ordinarie, anche dai contributi dei bancari. È facile, però, aspettarsi che Unicredit possa far valere la propria forza contrattuale, mirando ad ottenere che i prepensionamenti siano finanziati – come avvenne per le due venete – dalle casse pubbliche e magari estendendo a 7 anni il periodo di anticipo sulla data di effettivo pensionamento. Alcune stime ipotizzano che il costo medio di un prepensionamento sia, al lordo, pari a circa 200 mila euro. Il conto è presto fatto per comprendere quanto costerebbe, alla fine, il salvataggio di MPS e di quanti benefici potrà godere Unicredit. C’è da augurarsi, almeno, che questo avvenga senza quello “spezzatino” che molti temono e che nei menù dei piani industriali delle banche pare sia un piatto sempre più presente: basti pensare anche ai progetti di esternalizzazione e di cessioni di attività di BNL che riguardano circa 900 lavoratori. Non abbiamo bisogno di una ulteriore macelleria sociale in termini di creazione di nuovi disoccupati che, dopo lo sblocco dei licenziamenti del primo luglio, numerose multinazionali stanno generando e alimentando.
Unicredit, infine, dovrà giocoforza fare ingenti investimenti e anche assumere giovani, altrimenti il contributo pubblico alla riuscita dell’operazione di salvataggio di MPS non sarebbe giustificabile.
È prevedibile, infine, attendersi che da questa mossa di Unicredit su MPS, se andrà a buon fine, possa partire quella prima tessera di un domino che giornalisticamente viene definito “risiko bancario” e che potrebbe vedere muoversi diversi istituti. Cosa farà BPER, già interessata dalla corposa acquisizione di oltre 500 filiali derivanti dal surplus dovuto all’acquisizione di Ubi da parte di Intesa? E il BancoBPM? I francesi di Credit Agricole si sono già mossi su Creval, ma si fermeranno lì? Insomma, la corsa alla costituzione del cosiddetto terzo polo e, più in generale, alla concentrazione auspicata anche dal Governatore di Bankitalia, è ai nastri di partenza. L’allerta è massima.